Kyoto 3-4-5-6-7/X/2014
京都 2014年10月3-4-5-6-7日
“Japan was the gateway to that great East of which I had been dreaming since I had seen my first Japanese prints…”
Frank Lloyd Wright, An Autobiography
Non è permesso utilizzare nessun apparato fotografico, fare video o disegni che ne rappresentino il contenuto; il Sanjūsangen-dō 三十三間堂 di Kyoto è come un segreto da mantenere gelosamente a tutti i costi. La traduzione esatta del nome è “Tempio dai 33 spazi in mezzo alle colonne” e vuole descrivere l’immensità architettonica dell’edificio. Impossibile uscire da quel lungo padiglione (prima utilizzato per le competizioni di tiro con l’arco Tōshiya 通し矢 とおしや)senza avere ancora sulla pelle l’emozione della scoperta: mille statue di legno d’oro dipinte, ognuna rappresentante una divinità del pantheon Shintoista, ognuna in scala umana e con dettagli molto minuziosi, ogni statua aveva 21 braccia recanti in mano altrettanti oggetti sacri e da ogni copricapo si diramavano 11 facce diverse, tipiche della tecnica giapponese antica di rappresentazione. Disposte in primo piano c’erano le divinità principali che introducevano le altre. Tra queste c’era Garuda, incontrata già diverse volte in Birmania, Thailandia, Cambogia… Tra i “Nuovi” incontri figurano le due grandi divinità che si fronteggiano nomerose volte nella mitologia Shintoista nipponica, Fūjin 風神 e Raijin 雷神 ovvero il dio del Vento (ritratto come un demone dalle sembianze rettili, con una pelle di leopardo e che reca sulle spalle una grande borsa piena di venti) e il dio del Lampo-tuono-fulmine (demone anch’esso ma ritratto con delle percussioni per invocare i tuoni). Non serve a nulla fare fotografie all’interno del padiglione, comunque tutte le immagini rimarranno impresse nella memoria per sempre.
Altra grande emozione, seppur differente me l’ha regalata il mitico e suggestivo sito di Fushimi Inari Taisha 伏見稲荷大社, la collina che ospita il famoso complesso templare di Inari.Questo santuario si inerpica sulla montagna per oltre 233 metri di altezza sopra il livello del mare e per 4km e circa 2 ore di scalata si alternano piccoli e grandi templi, 32.000 tombe familiari bunsha 分社, santuari nel bosco e più di mille portali alti 10 metri dall’intensa colorazione. I 鳥居 Toori sono elementi tipici dell’architettura shintoista giapponese e segnalano l’entrata alla zona sacra che molto spesso non è racchiusa in un edificio ma è bensì all’aria aperta: questi grandi elementi sono composti da pietra e legno dipinti di rosso vermiglio e recano sulle colonne il nome del benefattore che ne ha fatto dono al santuario.
Lì era possibile fare fotografie e ne ho fatte migliaia, mi dava una sensazione di serenità passare sotto i grandi portali, densamente allineati, scoprire con loro in salita le bellezze della montagna e di tanto in tanto allontanarsi dal percorso catartico per addentrarsi nel bosco incantato di alti bambù e popolato da numerosissime Volpi di pietra: Tutti i santuari hanno per lo meno una volpe scolpita Kitsune 狐perché qui a 稲荷大神Inari Ōkami loro sono le regine, le protettrici e la chiave per una passaggio all’aldilà. Le volpi nella cultura Giapponese e in quella Cinese assumono una simbologia molto simile a quelle di esseri messaggeri, demoni capaci di assumere le sembianze di una sensuale ragazza o di un aitante guerriero, condizionano la vita delle persone e ne influenzano le scelte a proprio favore.
Numerosi sono i cartelli in lingua inglese che spiegano il rituale della “Pietra pesante”: 1) ci si inchina di fronte all’altare 2) si prende tra le mani la statua di pietra 3) si prega e si esprime un desiderio; si chiede alla statua di essere pesante o leggera 4) se questo si verifica allora la speranza sarà verificata, in caso contrario nessun desiderio si avvererà.
Era come vagare ancora in un mondo ovattato da un incantesimo; le rocce dei templi, con incise Kanji 漢字 (Caratteri giapponesi derivanti dal cinese) di preghiera, erano ricoperte a nord da un denso muschio che ne copriva le nudità, le volpi di pietra avevano uno sguardo beffardo e giocoso, a tutte veniva applicato un bavaglio rosso scarlatto che al sole sbiadiva mutandosi in un rosa antico, mentre il rosso vermiglio dei Toori in miniatura negli altari rimane sempre lo stesso. Cambiava l’orientamento e i colori mutavano nuovamente,sembrava che le foglie prossime all’autunno avessero regalato pigmenti alla dura roccia: marroni, verde acido e bordeaux.
Una placca plastificata segnala il 山頂 ovvero il punto più alto della montagna 233 metri, un piazzale ovale con una scalinata e tutt’attorno una miriade di piccoli santuari affollati di volpi, candele e miniature dei portali. Magicamente in questo punto, dopo 2 ore di scalata iniziò una pioggia fine ma intensa che mi ha costretto a comprare un ombrello trasparente di 500¥ per non bagnare la reflex e il mio block notes, le due cose di cui veramente mi importa quando viaggio. Dopo essere passato davanti a numerosi chioschi e piccoli ristoranti dalle più svariate pietanze, gelato al tè verde 抹茶 matcha, gelatine vellutate che tanto sembravano dei tessuti e non del cibo, una pizza dessert alla pesca e lamponi e molte altre cose “Particolari” finalmente trovo il luogo adatto per la cena, un tradizionale ristorante dal lungo bancone con il cuoco di fronte. Qui non esiste un cameriere per le ordinazioni, è tutto automatico: un apparato elettronico che tanto ricorda un distributore di bibite possiede una combinazione di numeri e lettere, combinandoli si seleziona la pietanza, si inserisce la banconota ed esce lo scontrino. Non avevo mai pensato alla relazione tra la parola ラーメン rāmen giapponese e gli ormai affezionati 拉面 lāmiàn cinesi, gli spaghetti allungati fatti a mano con la tecnica “dell’allungamento”: la parola giapponese è scritta in Katakana カタカナ e non in Hiragana ひらがな perchè effettivamente è una parola straniera importata dalla vicina Terra di Mezzo. Posso assicurare che il quel ristorante ho provato i noodle più buoni della mia vita.
Il quartiere di Gion 祇園, ぎおん è una sarabanda di luci e colori, anche se si denota facilmente che è stato ricostruito più volte per aderire a dubbi canoni estetici e turistici, il quartiere conserva un fascino innato; innumerevoli “case del tè” machiya o ochaya, si susseguono in quella che è stata definite la via più bella di tutta l’Asia. La cosa tuttavia più famosa e affascinante di quest’area è la presenza delle Geishe, abili intrattenitrici dai clienti facoltosi. Alla fine della nota arteria c’è uno dei templi che più mi ha affascinato di tutta Kyoto, il Kennin-ji 建仁寺, un tempio Buddhista Zen il cui interno è decorato dalle opere d’arte dei noti pittori Tamura Sōryū e Hashimoto Kansetsu; proprio all’ingresso, tolti i calzari, salendo una scalinata lignea si arriva ad una sala quadrata con le pareti dipinte e qui è presente la copia del “Separé” dipinto con la raffigurazione delle due divinità sopra citate Fūjin 風神 e Raijin 雷神 sullo sfondo dorato. Dopo aver visto il giardino zen con il “Mare di pietra”, le pareti di carta di riso, il legno scuro e laccato, i Tatami decorati, si arriva in una sala grande, abbastanza buia, con una grande statua di Buddha e quello che più stupisce è il grande tetto sui cui intarsi lignei spiccano le sagome stilizzate di due grandi dragoni che si contendono una sfera. Il dipinto è impressionante e maestoso e anche se era proibito l’ho voluto fotografare, ovviamente senza usare nessun flash.
Forse la zona più conosciuta di Kyoto per la vita notturna è Ponto-chō 先斗町 un lungo fiume (Kamo) vibrante di vita, locali, ristoranti, pub e discoteche. L’origine del singolare nome non è ben nota, come spiega il cartello ligneo all’entrata, è possibile che derivi dall’inglese “point” o dal portoghese “Pont” in quanto questa area si è sviluppata interamente sul lato ovest del fiume esattamente presso un “Punto” sabbioso. In uno dei tanti locali della zona ho provato un ottimo seppur carissimo Aragoshi umeshu, il classico vino dolce di prugne.
È vero che questa città, che tanto piccola non è, possiede un fascino particolare in tutte le stagioni e la tesaurizzazione dei numerosi cambiamenti di colore, odore e luce si cristallizza nell’itinerario di 2 km circa conosciuto con il nome di “Passeggiata del Filosofo” 哲学の道 Tetsugaku-no-michi. Il nome si riferisce al fatto che, nel corso dei secoli, filosofi e sacerdoti hanno camminato lungo questo tranquillo canale assorti nei propri pensieri. Si passeggia bordeggiando lo stretto canale琵琶湖疎水 Biwako Sosui con pesci rossi, carpe ed anatre; gli alberi si susseguono in maniera perfetta creando un morbido soffitto verde che in ottobre comincia a tingersi di autunno e in aprile-maggio esplode in un Rosa sfavillante con i Sakura 桜 in fiore. La piacevole passeggiata connette due complessi templari importanti, il Nanzen-ji南禅寺 e il Ginkaku-ji 銀閣寺 ma comunque nel mezzo è possibile imbattersi in numerosi altri santuari non battuti dalle rotte turistiche ma comunque possedenti un grande fascino. Forse sono stato fortunato e non ho incontrato molti turisti o forse semplicemente sono stato tanto rapito dai colori e dal paesaggio che ho ignorato completamente ogni altra forma di essere vivente deambulante. Ho trovato e fotografato una falena color ocra enorme sulle pareti dell’acquedotto in stile romano davanti al tempio di Nanzen, mi sono perso nei numerosi riflessi degli alberi nei placidi laghetti all’interno dei complessi templari, il rumore del vento che filtra attraverso vertiginosi bambù, il rilassante suono di una lieve cascata di gocce d’acqua sulla pietra, lo scricchiolio del legno che a piedi nudi si accarezza nei templi, nelle verande esterne, nei portici e nelle scalinate che conducono alle pagode posizionate panoramicamente nel punto più alto. Mi sono prima soffermato sui particolari, lasciandomi trasportare dai dettagli delle sculture e delle pennellate dei dipinti, dai fiori e dagli insetti, dalle scritte e dalle icone e poi ho tolto lo zoom macro per passare ad una visione più globale apprezzandone ogni sfumatura e gioco di luce. Il Ginkaku-ji 銀閣寺 è un dei Must della capitale antica. Venne costruito nel 1482 dallo Shogun Yoshimitsu Ashikaga 足利 義満 che aveva progettato di ricoprire questa villa completamente d’argento e tradotto letteralmente Ginkaku-ji significa appunto “tempio argentato”.Dopo la morte dello Shogun la villa venne convertita in un tempio ed ora numerosi turisti vengono qui per rendere omaggio al bellissimo lago, i sentieri alberati e i giardini di pietra e sabbia con coni sacri e superfici “rastrellate” come simbologia dell’elemento fluido. Un altro tempio che mi ha colpito è il Konchi-In perché riassume in maniera eccellente il concetto di Shakkei 借景 ovvero “paesaggio preso in prestito” tipico dell’architettura dei giardini giapponesi: un gioco di piani di rapprentazione, sullo sfondo le montagne riposano ricoperte da boschi di bambù e all’interno del giardino in perfetta corrispondenza viene riprodotta la stessa immagine ma in scala molto minore.
Non molto distante dalla zona dell’Higashiyama 東山区 è possibile visitare il celeberrimo Kinkaku-ji 金閣寺, forse il simbolo di Kyoto, il Padiglione dorato, situati all’interno del tempio buddhista zen di Rokuon-ji, registrato come patrimonio dell’UNESCO dal 1994 (come quasi tutto in questa città). Anche questa costruzione si deve allo Shogun, Yoshimitsu Ashikaga che fece costruire la villa di tre piani utilizzando tre differenti stili architettonici, uno per ogni piano. La parte terminale del tetto è sorvegliata dalla Fenice proveniente dalla mitologia cinese Ho-o (鳳凰, fènghuáng).Purtroppo il padiglione venne distrutto da un incendio le 1950, 5 anni più tardi venne interamente ricostruito e solo nel 1987 vennero applicate nuovamente le foglie d’oro e le decorazioni. Il cielo minacciava pioggia, acquazzoni in lontananza, ma anche se la condizione climatica non era la più favorevole, l’assenza di luce diretta e la leggera brezza, conferivano al padiglione una parvenza irreale, da sogno; il colore dorato contrastava fortemente con le tinte grigie, plumbee e così simili del cielo e del lago, lievemente increspato dal vento lo specchio d’acqua rifletteva tremante un verde bosco mesceva che inghiottiva i colori come un colpo di pennello veloce e deciso.
Il tempio Buddhista Kiyomizu-Dera 清水寺 merita assolutamente una visita perché rappresenta una particolarità architettonica interessante. Il Santuario è stato eretto per custodire le immagini sacre di Kannon (Dio della pietà) e Bosatsu (Boddhisattva indiano). Quando l’ho visitato era molto affollato di turisti ed è molto facile scambiare per veri monaci e per vere geishe le persone che passeggiano per il tempio in abito tradizionale: difficile non notare che il loro passatempo preferito era scattarsi foto e fare pose lasciando dubbio alcuno sul fatto che sono solo turisti asiatici che hanno “affittato” il costume tradizionale. Di questo tempio mi ha colpito la mastodontica struttura lignea di sostegno appoggiata alla montagna, ricorda quella di un acquedotto antico. Una ripida scala conduce ad una sorgente d’acqua dove tutti bevono attraverso lo stesso mestolo e bevendo pregano per la fortuna (Il nome del tempio significa appunto “Aqua pura“). Lungo la via terrazzata che conduce all’uscita ci sono delle figure con il cappelli tradizionale di paglia intrecciata con la scritta 龍 ovvero “Dragone”; difficile capire se sono veri monaci o no ma mi hanno ricordato tanto un personaggio di Mortal Kombat (videogioco “battle” della mia infanzia) Raiden雷電che con la celebre frase “Thunder take you” lanciava delle saette stordendo l’avversario e poteva passare sotto terra disorientando invocando il fulmine. Sempre in questo tempio è presente la statua del Okuninushino-mikoto, una divinità nel Pantheon giapponese dedita alla distribuzione dell’Amore e della scelta del giusto partner, una sorta di Cupido asiatico; un bianconiglio vagamente del paese delle meraviglie porta agli uomini i messaggi del dio e così non manca turista che non si faccia ritrarre in piedi vicino al coniglio, grandezza uomo, con in mano il suo “martello” sacro. Di questo angolo del tempio affollatissimo non mi hanno impressionato tanto le grandi pietre nere a terra che servono per poter compiere il “Percorso cieco dell’amore” (bendati si deve andare da una pietra all’altra due volte per poter avere la benedizione della divinità), o l’Okage-Myonjin, un albero di cedro dove venivano inchiodati dei messaggi, una sorta di Bambola voodoo che utilizzavano le signore giapponesi nell’antichità per gettare un maleficio sull’amore non corrisposto:più di tutte mi ha colpito l’azione poetica dello scrivere il nome del proprio partner, una frase, un messaggio segreto su di un cartoncino leggero di riso a forma di “Angelo”, gettarlo in un grande recipiente ligneo pieno d’acqua e attendere i pochi secondi in cui l’angelo si dissolve ma rimangono visibili per magia le parole scritte con l’inchiostro che affondando leggere si sommano a tutte le preghiere delle altre persone creando un libro di promesse e speranze.
Come per Osaka, anche qui a Kyoto il castello Nijo è da visitare assolutamente: dell’interno hanno rapito la mia attenzione le pitture dai motivi geometrici ad onde e un il dettaglio strabiliante del suono del pavimento che è stato progettato per assomigliare al cinguettio di un usignolo, in questo modo si sarebbe sempre saputo della presenza di un eventuale intruso o dell’incedere del sovrano verso le camere dell’amministrazione politica.
L’ultimo ricordo che ho di Kyoto è l’avvenieristica Stazione del treno 京都駅 Kyōto-eki alta 70 metri, costruita nel 1997 dal noto architetto Hiroshi Hara in onore dei 1200esimo compleanno della città. Si situa proprio di fronte alla panoramica e vertiginosa Torre Kyoto京都タワー Kyōto-tawā, architettonicamente è un elogio al futurismo, con forme irregolari, facciate parametriche, sculture, cubi trasparenti dove vetro e acciaio si fondono magistramente in un edificio così complesso da descrivere,
in una città in bilico tra modernità e tradizione.
A presto
😉
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